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Orchestra Elettroacustica Officina Arti Soniche – Conservatorio San Pietro a Majella

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L’orchestra dell’officina arti soniche nasce all’interno della classe di musica elettronica del Conservatorio di Napoli, ma in breve tempo musicisti provenienti da altre classi del conservatorio e anche dall’esterno di questa istituzione l’hanno trasformata in una sorta di “struttura aperta”, multi-identitaria. Il cuore pulsante di quest’orchestra è la “conduction”. Tale pratica ha due fondamentali propositi: stimolare la creatività musicale estemporanea collettiva e incentivare, nella figura del direttore d’orchestra, l’arte della “maieutica”. Il primo dei due propositi è ottenuto attraverso la pratica improvvisativa e la formazione di un’orchestra, che includa ogni tipo di strumento (classico, etnico, elettronico, autocostruito) e qualsiasi capacità musicale raggiunta da ogni singolo strumentista (esperto, studente, inesperto). Questo è possibile grazie alla stretta relazione che si ha con il secondo proposito, che invita il direttore d’orchestra non tanto a dirigere o, a dispetto del nome che si da a questa particolare pratica musicale, a condurre i musicisti verso una propria idea musicale (del conduttore), ma a mettere in luce, a dissotterrare (come fa un archeologo) le forme e i contenuti che i musicisti stessi di volta in volta creano, inventano, scoprono, propongono. Si tratta quindi di un complesso ecosistema che pone al suo centro l’uomo e la sua capacità di relazione. Il terreno su cui questo “grande albero” si regge è naturalmente l’arte; un terreno fertile che consente all’uomo di progredire sempre di più nutrendo costantemente i due piani della sua “sensibilità”, quello corporeo (ovviamente sensibile) e quello intellettuale (sensibile anch’esso).
Qui lo specifico è ovviamente la musica, ma non tanto quella già stratificata in generi, cristallizzata in forme e strutture ben riconoscibili, ma piuttosto la musica come arte del suono; il suono in quanto tale, la sua grana, il timbro (il parametro più incontrollabile e complesso del suono). La nota, l’altezza, la durata sono il tentativo storico di semplificare e ridurre l’esperienza sonora nella direzione del controllo. Qui si tratta invece di una sorta di ritorno alle origini, di qualcosa che ha a che fare con aspetti quasi primitivi del “sentire”, di una forma prelinguistica della percezione atta a cogliere il suono in quanto avvenimento sonoro in sé, cortocircuitando l’abitudine a considerare ciò a cui il suono rimanda (“l’ascolto banale”), la sua dimensione vicaria. Questa complessa esperienza uditiva consente di comprendere che la qualità, la specificità, la peculiarità della musica, la sua “vocazione” originaria è tutta riposta nel suo destrutturante appellarsi all’orecchio. Considerando la radice “sensibile” del pensiero si comprende che sviluppare, orientare, sollecitare questo importantissimo “senso”, significa ampliare e dilatare la capacità dell’uomo di pensare e di pensarsi nel mondo. Sviluppare l’ascolto significa mettere in discussione se stessi, decostruire la propria prospettiva d’ascolto, dilatare il proprio orizzonte spazio-temporale. E’ necessario non dimenticare che ascoltare significa interiorizzare – l’orecchio segue e subisce il tempo del suono, e per ascoltare è necessario fare silenzio – dunque, il suono ed il silenzio sono solidali. L’orecchio si configura come il “senso” dell’ospitalità e dell’accoglienza, strumento dell’apertura e della “trascendenza”. Ecco che la pratica dell’improvvisazione con le sue implicazioni sociali, la sua capacità di produrre comunità si connette e partecipa alla stessa filosofia dell’accoglienza che sottintende la dimensione dell’ascolto e dunque dell’orecchio. Ecco un punto di importanza assoluta, di radicale vertigine, quello che si potrebbe definire di iniziazione alla dimensione più autenticamente umana. Ancor più che pensare l’uomo tra le cose del mondo è da pensare in relazione all’altro – egli è, in primis, intersoggettività (il cordone ombelicale lo testimonia, è segno e simbolo di tale originaria connessione – hardware e non wireless). La musica, dunque, è un’arte che consente di ascoltare l’altro non tanto per le parole che pronuncia, ma per il silenzio che sostiene quelle parole, per i respiri che ne cadenzano il ritmo, o per la filigrana stessa di quelle parole. Senza questa qualità accogliente dell’ascolto si sarebbe destinati a parlare e a parlare senza sosta, ad errare e a delirare in un eterno soliloquio, senza mai poter conoscere il potere generativo del silenzio. Un silenzio che come ha mostrato John Cage è pur sempre suono, anche se solo sussurrato, bisbigliato, interiore. Il silenzio, che è pratica costitutiva dell’ascolto, consente di aprire soglie ai limiti del proprio orizzonte e di accedere all’altro, ad una più profonda idea di libertà. La libertà intesa non tanto come operatività all’interno di un limite morale ed etico, ma come opportunità di “trascendenza” – l’altro “trascende” il proprio sé, esso è infinitamente altro, irriducibile a se stessi. Con l’altro si può e si ha l’obbligo e la responsabilità di condividere nuove parole, nuovi suoni, nuovi pensieri, altri racconti, non quelli già qui, già dati, in qualche modo già imposti (integrazione e annessione sono i corrispettivi dell’esclusione e dell’espulsione), ma da creare, da inventare assieme. Come scrive Luce Irigaray, condividere il già dato significa riconoscere l’altro solo per quello che si è già, significa celarlo e ridurlo a ciò che già appartiene al proprio “essere”; mentre la condivisione, nel senso più radicale e forse autentico del termine, è sempre da generarsi, è ancora tutta da farsi, è da crearsi unicamente attraverso l’incontro con l’altro. Tutto ciò, la tensione verso la “trascendentalità” dell’altro, la spinta verso l’esterno del proprio “essere”, ha a che fare con quella forma di stupore intessuto di silenzio e di ascolto che spesso viene chiamato “desiderio”.

Sala Scarlatti – Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli